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lunedì 1 settembre 2008


 



da "il manifesto" del 07 Marzo 2004

Processo alla violenza

La violenza non sta nella ribellione. E' inscritta nel modo di produzione capitalistica che riproduce ineguaglianza, esclusione, arretratezza. Il dibattito su violenza e non-violenza non nasce dalla necessità di fare i conti con le degenerazioni di ogni rivoluzione - come se Gramsci non fosse mai esistito. Ad alimentare il processo retrospettivo al movimento operaio è il venir meno della pensabilità, e quindi liceità, di una alternativa di fondo al sistema attuale, e l'azzeramento di Marx

ROSSANA ROSSANDA,



Ma ha veramente senso accusare il movimento operaio di ispirazione marxista di una vocazione violenta e fin militarista? Non voglio infilarmi nella filologia dell'uso di termini come guerra, violenza, lotta nel lessico politico. Dopo il 1948 lo scontro assume radicalità nel senso proprio che, per Marx, l'opposizione fra lavoro e capitale non può comporsi dialogicamente. Ma come scordare che gli eserciti e la guerra sono denunciati fin dai primi socialisti come strumento delle classi dominanti, che il movimento operaio nasce internazionalista e ne porta il peso con l'accusa di essere infido sotto il profilo patriottico, tanto che sulle guerre del proprio paese di regola si spacca? E poi la guerra punta al dominio d'un altro territorio, il conflitto sociale punta al mutamento dei rapporti di produzione nel proprio paese. Non mira a conquiste nazionali, non vuole sudditi. Per esso l'umanità è divisa orizzontalmente dalle differenze di proprietà, poteri, classe, mentre gli Stati sono espressioni verticali di una territorialità. E Marx, se appena si eviti di aggrapparsi a una citazione, sottolinea l'insufficienza della presa del potere, quand'anche si verifichi dentro una guerra civile (Comune di Parigi). Se c'è stata un'innovazione nel paradigma classico del politico è quella del marxismo. Si obietta che la rivoluzione del 1917, anche se non militare, ha dato luogo a uno stato, dotato di un esercito che ha colorato di sé il movimento comunista internazionale. È vero entro un certo limite: la difesa dello `stato operaio', `fortezza assediata' non è stato il nocciolo fondativo dei partiti comunisti, anche se ha contato nella guerra fredda. E che ci fosse un problema era chiaro alla Terza Internazionale, che si è dibattuta sull'interrogativo se potesse darsi il socialismo in un paese solo, isola in un mondo diverso e avverso, e quindi necessitato a difendersi. Il giovane paese dei soviet doveva farsi stato e armarsi. Su questo il gruppo leninista si divise, l'assedio esterno e i limiti interni dei dirigenti rimasti in lizza indussero presto a privilegiare la tenuta politica rispetto alla trasformazione sociale. Contraddittoria rispetto alle priorità dello stato, quando queste prevalgono la rivoluzione sociale cessa.



Bisognava dunque non fare il 1917? Questo fu il dilemma allora e sarebbe utile che i non violenti vi rispondessero oggi. «Trasformare la guerra in guerra civile» era una parola d'ordine bellicista, anche se fece cadere l'autocrazia in nome della pace e del pane, la vera guerra civile essendo dichiarata due anni dopo dai generali fedeli allo zar? L'Unione Sovietica fu uno Stato espansionista? Ha ragione Nolte nel sostenere che il nazismo è stato una reazione alla sua minaccia? Facciamola una buona volta questa storia, o taciuta o maledetta. Invece di farla, l'attuale riproposta della non violenza arriva più o meno esplicitamente qui: quali che siano le intenzioni, pacifiche ed egualitarie, qualsiasi rivoluzione incontra questo dilemma e lo scioglie al peggio. E non solo per quel di lesivo dell'altro che ha il togliere ad alcuni proprietà e potere, sia pure per ripartirli fra chi ne era privo, ma per le dinamiche che ricostituiscono un nuovo ordine di comando. In ogni rottura agisce una eterogenesi dei fini.



È un paradigma assoluto quanto indimostrabile. Non è scritto che in ogni paese e circostanza debba andare come nell'Unione Sovietica di quasi un secolo fa. Sicuramente una liquidazione della proprietà e di una forma di stato non avviene col loro consenso, sicuramente nei momenti acuti dello scontro ci sono stati morti e feriti, anche se i morti li ha fatti più il potere investito che coloro che lo attaccavano. Sicuramente la costruzione di una nuova struttura di governo subisce la tentazione dell'avanguardia, prima ancora di quella della sclerosi burocratica, e di più nei paesi sottosviluppati. Ma si vuol sostenere che sarebbe stato meno mortale mantenere l'autocrazia in Russia? Che sarebbe stato più opportuno lasciare che l'unità d'Italia si facesse per osmosi? Che senza le rivoluzioni del Novecento saremmo in una società migliore? Quando si enuncia una tesi, sarebbe opportuno chiarire fin dove si intende portarla.



Quel che più mi sembra offendere il principio di realtà è che la violenza stia nella ribellione. Come Tronti, penso che la violenza è inscritta nel sistema dominante. E non solo né particolarmente nelle armi o nelle botte. Quel che ho appreso da oltre mezzo secolo è che se sono violenti tutti i rapporti di soggezione, la violenza nel modo di produzione capitalistica è la più perfetta perché inerente al meccanismo astratta, che riproduce ineguaglianza, esclusione, arretratezza - limitate e eternizzate da una democrazia politica fondata sulla proprietà. Sono violenti i poteri mondiali non solo quando fanno la guerra ma nell'ordinamento che impongono quasi che fosse legge di natura. (...) Non lo sono, perché incorporei, i meccanismi del sistema e lo sono invece i corpi dei lavoratori per strada, le poche volte che vi scendono?



Nessuno lo sosterrà, credo. Obietterà: ma se questa violenza non si può eliminare con uno scontro, è inevitabile che lo scontro macchierà ambedue le parti. Da parte nostra, il manifesto, lo dicemmo in tempi non sospetti, ma non ne derivammo la rassegnazione all'esistente e ai tempi lunghi, non calcolabili di una riconciliazione fra capitalisti e non, oppressori e oppressi. Pensiamo, penso, che dei pericoli degenerativi di ogni rivoluzione si debba, ma ormai anche si possa, fare conto. Si direbbe che la storia del comunismo dagli anni Venti in poi non sia stata anche una seria riflessione sulla sconfitta della rivoluzione in Europa, cioè sulla natura dello scontro, la sua maturità e immaturità. Che Gramsci non sia esistito. Il discorso della `presa del potere' era chiuso in Occidente da ben prima del 1945. E se mai fu pensato come colpo di Stato, manovra militare - cosa che discuterei - l'attuale asimmetria delle forze lo renderebbe folle. Chi si propone di prendere d'assalto Palazzo Chigi o la Casa Bianca?



Non è questa la preoccupazione che alimenta il processo retrospettivo al movimento operaio: è il venir meno della pensabilità, e quindi liceità, di una alternativa di fondo al sistema attuale, e l'azzeramento di Marx. Si rifiuta che questo, detto molto approssimativamente `del lavoro' resti il tema irrisolto, più che mai chiave del presente.



Che i dirigenti dell'ex Pci abbiano dismesso la critica dei rapporti di produzione non è rinsavimento dalla violenza, è l'invito ai lavoratori di rifarsi funzione e merce del capitale in competizione con altri capitali, ed essi stessi con altri lavoratori. Certo, anche sulla scomparsa del Pci bisogna ragionare, ma mi brucia farlo nei termini proposti da Ingrao.



La mia vita nel partito è stata parallela alla sua, si parva licet, dal 1943 dal 1969. Eravamo venuti da una guerra, è vero, e così orrenda che quando finì tendemmo di più a lasciarla alle spalle che a esaltare la vittoria - del resto l'essere italiani e pensanti non ci permetteva di scaricarne gli oneri e prenderci gli onori. Non fummo dei veterani. Avevamo così bisogno di ricominciare che tardammo perfino a capire la proporzione delle atomiche e a cogliere l'ampiezza della shoah.



Del ricominciare fece parte, almeno al Nord, il disarmare gli argomenti della resistenza rossa. La quale non veniva da smanie estremiste ma dalla impossibilità di scordare che non erano stati i tedeschi a fare la marcia su Roma, a chiudere il Parlamento, a bruciare le Camere del lavoro, a massacrare gli abissini e che non ci costrinsero con la pistola alla nuca a scrivere leggi razziali, a cacciarci in guerra e a deportare gli ebrei. Renzo De Felice la fa troppo facile. Erano i fascisti che ci facevano invadere dai tedeschi e i ragazzi di Salò che ne officiavano le basse opere. Per questo fu anche una guerra civile, come ha scritto Claudio Pavone.



Il fascismo lasciò scie sanguinose, seminò vendetta. Non è una delle sue colpe minori. Mi ha fatto senso sentire qualche giorno fa Piero Fassino ricordare le foibe come una trovata di Tito e non il frutto avvelenato delle imprese del generale Roatta, perché l'Italia miserabilmente pensò che la Jugoslavia sarebbe stata sua. Non è bella la resa dei conti, mi viene il vomito se ricordo Piazzale Loreto e la gente che ci passava davanti urlando. Ma mi fa ribrezzo la festosa riconciliazione con la parte che ci precipitò in guerra, e nei campi e nelle case di tortura, che consegnò gli ebrei quando non li fucilò nei campi di passaggio.



Soprattutto ho ben netto il ricordo di come costruimmo dopo il 1945 un partito che si dava come obiettivo una trasformazione del paese e dei rapporti di proprietà e di potere che vi dominavano, ma non mise mai la rivoluzione all'ordine del giorno. Come avrebbe potuto del resto in piena divisione del mondo, e l'Italia nella zona occidentale? Non eravamo matti. Ma sono convinta che per molti dirigenti, Togliatti incluso, che dell'URSS avevano avuto una chiara esperienza, il trovarsi all'Ovest non fu percepito come una disgrazia. La via italiana sarebbe stata altra, il che non rendeva il conflitto meno duro. Era irriducibile, acerbo, ma non armato. Dicendo guerra di classe non è che ci si apprestasse a militarizzarsi, preparare truppe o servizi occulti - quando lo tentò, o abozzò, Secchia, fu liquidato. La famosa doppiezza andrebbe rivisitata. (...)



Aspettando l'ora x? Ma via. E stento a credere che l'aspettasse la direzione del PCI, utilizzando noi piccoli funzionari per contarla su alle masse. E quali masse, tutti gattini ciechi? Non ricordo così né i vecchi né i giovani compagni del Nord, neanche i più rigidi. E a Roma sentivo scherzare sul `ha da venì Baffone'. C'era molta autoironia nelle sezioni romane anche se, settentrionale superbiosa, le trovavo più popolane che proletarie. Conosco per filo e per segno quel che restò di amaro della Resistenza, ed era più delusione che attesa di ore finali.



Noi comunisti non riducemmo il conflitto a una aspettativa messianica, esterna, in quel caso l'arrivo dell'Armata rossa; lo praticammo, lo civilizzammo, gli demmo ragione, senso e determinazione. Mutarono molte vite. Combattemmo - ahimè che parola - la rassegnazione, l'abitudine al servaggio, acculturammo il paese. Era un partito pesante, faticoso, povero, ostinato, poco flessibile, spesso schematico, diviso non solo fra vecchi e giovani, ma su quel che giorno per giorno, anno per anno si poteva o si doveva fare. Ci trovavamo all'interno di una Costituzione cui avevamo lavorato, che ci dava spazio e pensammo che se ne sarebbe potuto superare, con il consenso della maggioranze del paese, il limite della proprietà. E fra i dirigenti del Pci Ingrao rappresentava l'ultimo che semplificasse le cose, che si contentasse di slogan, che non ci ammonisse alla complessità. E non mi pare che fosse circondato da una direzione assatanata di rivolte. (...)



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