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giovedì 29 novembre 2007

Stadio, prime perplessità a sinistra

Alto Adige, 29 novembre 2007



Rifondazione: più traffico e pochi benefici per la città 


 


«Alla nostra comunità servirebbe piuttosto il Centro provinciale» 


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 LAIVES. Il nuovo stadio in zona Galizia, nel quale giocherà l’Fc Alto Adige, sarà una delle opere pubbliche più importanti realizzati nella storia recente di Laives. Si tratta di una struttura da ottomila posti, con almeno 1500 posti auto oltre a una serie di impianti «satelliti». La notizia dell’assegnazione dello stadio a Laives è stata accolta generalmente in maniera molto positiva, ma ora in alcuni ambienti iniziano a emergere dubbi sull’opportunità dell’operazione. Il primo a esprimere pubblicamente perplessità era stato Marco Bove, ex consigliere comunale dei Verdi. Ora le sue argomentazioni vengono ribadite anche da Rifondazione comunista.


 L’attuale centro sportivo Galizia, dice Prc, «più che rispondere alle effettive necessità della popolazione si è rivelata un peso per le casse del Comune. La decisione di attirare sul territorio comunale l’Fc Alto Adige appare dunque una scelta obbligata al fine di porre un freno alle spese per la manutenzione del centro. Occorre però che lo specchietto per allodole dei soldi provinciali non faccia incorrere in nuovi errori».


 Ciò che dovrebbe «far riflettere», prosegue Rifondazione, «sono due aspetti». Il primo «è il rifiuto di altri Comuni di accollarsi uno stadio da ottomila posti e la brama con cui, di contro, si appetisce al centro sportivo provinciale. Quest’ultimo infatti prevede la costruzione di un centro di medicina dello sport e di fisioterapia che costituiscono naturalmente la parte più allettante e maggiormente qualificante dell’intero progetto».


 L’altro aspetto «è invece l’arrivo nel fine settimana, cioè nell’unico momento in cui Laives si libera dalla morsa del traffico e dal relativo inquinamento, di migliaia di automobili per le quali è già previsto un megaparcheggio. La miriade di tifosi non porteranno che limitati benefici all’economia della nostra città, ma rischiano invece di costituire un problema di difficile gestione».


 Una struttura «dal così forte impatto» su Laives «richiede dunque che i cittadini vengano coinvolti e messi nella condizione di poter prendere una decisione consapevole. Occorre un’informazione completa che spieghi vantaggi e gli svantaggi di una scelta eliminando gli equivoci tra cittadella dello sport e centro sportivo provinciale. Noi riteniamo che se si vuole dar vita ad una struttura che sia realmente al servizio dei nostri concittadini, dei giovani, delle associazioni sportive, non si debba assolutamente rinunciare alle infrastrutture più qualificanti: un centro di medicina sportiva e di riabilitazione fisioterapica costituiscono infatti un polo di eccellenza, possono essere effettivamente utili alla nostra comunità e pertanto giustificherebbero l’accoglimento sul nostro territorio di un’opera così impattante».

Stadio, prime perplessità a sinistra

Alto Adige, 29 novembre 2007



Rifondazione: più traffico e pochi benefici per la città 


 


«Alla nostra comunità servirebbe piuttosto il Centro provinciale» 


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 LAIVES. Il nuovo stadio in zona Galizia, nel quale giocherà l’Fc Alto Adige, sarà una delle opere pubbliche più importanti realizzati nella storia recente di Laives. Si tratta di una struttura da ottomila posti, con almeno 1500 posti auto oltre a una serie di impianti «satelliti». La notizia dell’assegnazione dello stadio a Laives è stata accolta generalmente in maniera molto positiva, ma ora in alcuni ambienti iniziano a emergere dubbi sull’opportunità dell’operazione. Il primo a esprimere pubblicamente perplessità era stato Marco Bove, ex consigliere comunale dei Verdi. Ora le sue argomentazioni vengono ribadite anche da Rifondazione comunista.


 L’attuale centro sportivo Galizia, dice Prc, «più che rispondere alle effettive necessità della popolazione si è rivelata un peso per le casse del Comune. La decisione di attirare sul territorio comunale l’Fc Alto Adige appare dunque una scelta obbligata al fine di porre un freno alle spese per la manutenzione del centro. Occorre però che lo specchietto per allodole dei soldi provinciali non faccia incorrere in nuovi errori».


 Ciò che dovrebbe «far riflettere», prosegue Rifondazione, «sono due aspetti». Il primo «è il rifiuto di altri Comuni di accollarsi uno stadio da ottomila posti e la brama con cui, di contro, si appetisce al centro sportivo provinciale. Quest’ultimo infatti prevede la costruzione di un centro di medicina dello sport e di fisioterapia che costituiscono naturalmente la parte più allettante e maggiormente qualificante dell’intero progetto».


 L’altro aspetto «è invece l’arrivo nel fine settimana, cioè nell’unico momento in cui Laives si libera dalla morsa del traffico e dal relativo inquinamento, di migliaia di automobili per le quali è già previsto un megaparcheggio. La miriade di tifosi non porteranno che limitati benefici all’economia della nostra città, ma rischiano invece di costituire un problema di difficile gestione».


 Una struttura «dal così forte impatto» su Laives «richiede dunque che i cittadini vengano coinvolti e messi nella condizione di poter prendere una decisione consapevole. Occorre un’informazione completa che spieghi vantaggi e gli svantaggi di una scelta eliminando gli equivoci tra cittadella dello sport e centro sportivo provinciale. Noi riteniamo che se si vuole dar vita ad una struttura che sia realmente al servizio dei nostri concittadini, dei giovani, delle associazioni sportive, non si debba assolutamente rinunciare alle infrastrutture più qualificanti: un centro di medicina sportiva e di riabilitazione fisioterapica costituiscono infatti un polo di eccellenza, possono essere effettivamente utili alla nostra comunità e pertanto giustificherebbero l’accoglimento sul nostro territorio di un’opera così impattante».

martedì 27 novembre 2007

Dibattito sull'inceneritore.


Alto Adige del 28 novembre 2007


 



LA REPLICA DEL CNR 


 


«Veronesi inquietante" Su questi temi la scienza non fornisce certezze» 




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Come autore e coautore di diverse rassegne bibliografiche e articoli scientifici sul tema in questione, Il giudizio di assenza di rischio per le popolazioni residenti intorno ad inceneritori rilasciato dal Prof. Veronesi e da colleghi epidemiologi ed oncologi di riconosciuto valore, mi inquieta non tanto perché non condivido il giudizio ma per la loro assunzione di una certezza che il metodo scientifico in uso non consente di dare.


 Considerare, peraltro in modo piuttosto sommario, solo alcuni studi (come quello di Elliott in Gran Bretagna) e ricavarne giudizi generali fa torto alla laboriosa attività di revisione sistematica che viene fatta per analizzare, in modo approfondito e secondo una metodologia concordata, le diverse decine di lavori prodotti negli ultimi decenni.


 Le rassegne più recenti della letteratura (come quella del DEFRA - Dipartimento Ambiente, Alimenti e Agricoltura della Gran Bretagna), effettuate da ente pubblico su incarico pubblico con l’obiettivo di fare il punto sullo stato delle conoscenze e non di supportare scelte già effettuate, come ad esempio la costruzione di mega inceneritori in Sicilia, si guardano bene dal concludere con certezze di assenza di rischio. Anzi, le ripetute segnalazioni di incrementi significativi per i sarcomi dei tessuti molli e i linfomi non Hodgkin, due rare neoplasie per le quali si ritiene che la 2,3,7,8 tetraclorodibenzodiossina (TCDD) svolga un ruolo eziologico, di tumori dell’apparato respiratorio (polmone e laringe) e del fegato, seppure dotate di una minore riproducibilità, fanno propendere per una co-responsabilità dell’esposizione a combustioni da rifiuti, anche se la dimensione quantitativa del rischio è e resta ancora incerta.


Non sono poi da trascurare altri numerosi studi che hanno segnalato eccessi di malformazioni, basso peso alla nascita e alterazioni del rapporto tra sessi, di mortalità e incidenza per patologie respiratorie non tumorali, epatiti, cirrosi in popolazioni caratterizzate da elevati tassi di patologie tumorali correlate.


 Per completezza va detto che in letteratura si trovano anche diversi studi che non hanno riportato eccessi di rischio, alcuni dei quali perché non erano in grado di vederli (come avere il binocolo quando serve il microscopio!); altri studi pur individuando eccessi di patologie, non sono in grado di dire qual è la causa, perché fatti con un metodo non adatto a questo scopo ma piuttosto orientati a descrivere ed indicare cose da approfondire.


 Per le stesse ragioni sin qui esposte non concordo assolutamente con quelle posizioni che prendono i soli risultati positivi di presenza di rischio e ci confezionano una posizione di certezza assoluta del danno.


 Ritengo invece che in materia di inceneritori e salute (per le discariche il ragionamento è simile) sia adeguato ed utile un ragionamento serio ed un uso corretto del principio di precauzione basato sulle evidenze disponibili e sulle incertezze da colmare, lette ed interpretate con metodologia scientifica adeguata, senza né pre-giudizi né conflitti di interessi.


Dr. Fabrizio Bianchi, Epidemiologo Dirigente di Ricerca del CNR Istituto di Fisiologia Clinica, Pisa 


 



L’ONCOLOGO VERONESI 


 


«Nessun nesso causale tra inceneritori e rischi per la salute» 


 


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Il professor Umberto Veronesi, direttore scientifico dell’Istituto Europeo dei Tumori, ha minimizzato i rischi correlati alla realizazione di inceritori. Lo ha fatto nell’ambito dello studio dal titolo «Il recupero di energia dai rifiuti: le implicazioni ambientali e l’impatto sanitario», elaborato dal Comitato scientifico di garanzia istituito dalla Regione Sicilia in vista della realizzazione di 6 nuovi megainceneritori, e da lui stesso presieduto. Lo studio riporta che «su 46 pubblicazioni considerate, 13 avevano studiato gli effetti sui lavoratori degli impianti, mentre dei rimanenti 33 studi considerati, solo 7 riguardavano inceneritori di rifiuti solidi urbani. Tra questi, uno aveva analizzato la mortalità per cancro tra i residenti intorno ad inceneritori nel Regno Unito.


 Quest’ultimo studio - secondo Veronesi - appare il più rilevante ai fini di una valutazione se esista o meno un rischio più elevato di cancro tra la popolazione generale residente nelle vicinanze di inceneritori. Innanzitutto aveva coinvolto 14 milioni di soggetti seguiti per tempi fino a 13 anni che vivevano intorno a 72 inceneritori di rifiuti urbani, alcuni del quali vetusti. Inoltre era stato condotto da ricercatori dell’Unità di Epidemiologia Ambientale del Dipartimento di Salute Pubblica del London School of Hygiene con l’utilizzo di tecniche statistiche originali. L’ipotesi dello studio si poggiava sul fatto che si sarebbe dovuto osservare un declino del numero di casi di cancro allontanandosi dalla fonte emittente, nel caso che quest’ultima avesse avuto un ruolo causale, ovviamente nella consueta assenza di livelli misurati di inquinanti nella zona in studio. La conclusione degli autori è che non è stata trovata alcuna evidenza di diversità d’incidenza e mortalità per cancro nei 7,5 chilometri di raggio studiati ed in particolare nessun declino con la distanza dall’inceneritore per tutti i tumori: stomaco, colon-retto e polmone oltre che per linfoma di Hodgkin e sarcomi dei tessuti molli. Rimaneva una piccola incertezza per il tumore del fegato, più che altro legata ad errori diagnostici come l’attribuzione, come primitivi, di tumori secondari del fegato». «Alcuni anni prima, nel 2001, - prosegue lo studio elaborato dall’équipe coordinata da Veronesi - Hu e Shy avevano condotto una revisione degli studi epidemiologici pubblicati fino allora. Questi autori avevano considerato tutti i possibili effetti che potevano essere collegati alla presenza di un inceneritore, arrivando alla conclusione che gli studi epidemiologici esaminati erano concordi nel descrivere più elevati livelli corporei di alcuni composti chimici organici e di metalli pesanti, ma nessun aumento di sintomi respiratori o di declino della funzione polmonare. Le analisi effettuate avevano fornito risultati inconsistenti per rischio di cancro e di effetti sulla riproduzione». Inoltre, tutte e tre le grandi revisioni degli studi condotti negli ultimi 20 anni, focalizzati sui possibili effetti sulla salute dei residenti nel raggio di ricaduta delle emissioni di inceneritori di rifiuti urbani e pubblicati negli anni 2001-2007, condurrebbero a risultati sovrapponibili. Secondo Veronesi e colleghi «i dati di mortalità per tutte le cause e per tumori, di morbilità per affezioni delle vie respiratorie e di possibile incremento di effetti sulla riproduzione, sono del tutto inconsistenti e pertanto non provano l’esistenza di un qualsiasi nesso causale tra presenza di inceneritori di Rsu e rischio per la salute di popolazioni residenti, nel raggio di ricaduta delle loro emissioni».




Dibattito sull'inceneritore.


Alto Adige del 28 novembre 2007


 



LA REPLICA DEL CNR 


 


«Veronesi inquietante" Su questi temi la scienza non fornisce certezze» 




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Come autore e coautore di diverse rassegne bibliografiche e articoli scientifici sul tema in questione, Il giudizio di assenza di rischio per le popolazioni residenti intorno ad inceneritori rilasciato dal Prof. Veronesi e da colleghi epidemiologi ed oncologi di riconosciuto valore, mi inquieta non tanto perché non condivido il giudizio ma per la loro assunzione di una certezza che il metodo scientifico in uso non consente di dare.


 Considerare, peraltro in modo piuttosto sommario, solo alcuni studi (come quello di Elliott in Gran Bretagna) e ricavarne giudizi generali fa torto alla laboriosa attività di revisione sistematica che viene fatta per analizzare, in modo approfondito e secondo una metodologia concordata, le diverse decine di lavori prodotti negli ultimi decenni.


 Le rassegne più recenti della letteratura (come quella del DEFRA - Dipartimento Ambiente, Alimenti e Agricoltura della Gran Bretagna), effettuate da ente pubblico su incarico pubblico con l’obiettivo di fare il punto sullo stato delle conoscenze e non di supportare scelte già effettuate, come ad esempio la costruzione di mega inceneritori in Sicilia, si guardano bene dal concludere con certezze di assenza di rischio. Anzi, le ripetute segnalazioni di incrementi significativi per i sarcomi dei tessuti molli e i linfomi non Hodgkin, due rare neoplasie per le quali si ritiene che la 2,3,7,8 tetraclorodibenzodiossina (TCDD) svolga un ruolo eziologico, di tumori dell’apparato respiratorio (polmone e laringe) e del fegato, seppure dotate di una minore riproducibilità, fanno propendere per una co-responsabilità dell’esposizione a combustioni da rifiuti, anche se la dimensione quantitativa del rischio è e resta ancora incerta.


Non sono poi da trascurare altri numerosi studi che hanno segnalato eccessi di malformazioni, basso peso alla nascita e alterazioni del rapporto tra sessi, di mortalità e incidenza per patologie respiratorie non tumorali, epatiti, cirrosi in popolazioni caratterizzate da elevati tassi di patologie tumorali correlate.


 Per completezza va detto che in letteratura si trovano anche diversi studi che non hanno riportato eccessi di rischio, alcuni dei quali perché non erano in grado di vederli (come avere il binocolo quando serve il microscopio!); altri studi pur individuando eccessi di patologie, non sono in grado di dire qual è la causa, perché fatti con un metodo non adatto a questo scopo ma piuttosto orientati a descrivere ed indicare cose da approfondire.


 Per le stesse ragioni sin qui esposte non concordo assolutamente con quelle posizioni che prendono i soli risultati positivi di presenza di rischio e ci confezionano una posizione di certezza assoluta del danno.


 Ritengo invece che in materia di inceneritori e salute (per le discariche il ragionamento è simile) sia adeguato ed utile un ragionamento serio ed un uso corretto del principio di precauzione basato sulle evidenze disponibili e sulle incertezze da colmare, lette ed interpretate con metodologia scientifica adeguata, senza né pre-giudizi né conflitti di interessi.


Dr. Fabrizio Bianchi, Epidemiologo Dirigente di Ricerca del CNR Istituto di Fisiologia Clinica, Pisa 


 



L’ONCOLOGO VERONESI 


 


«Nessun nesso causale tra inceneritori e rischi per la salute» 


 


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Il professor Umberto Veronesi, direttore scientifico dell’Istituto Europeo dei Tumori, ha minimizzato i rischi correlati alla realizazione di inceritori. Lo ha fatto nell’ambito dello studio dal titolo «Il recupero di energia dai rifiuti: le implicazioni ambientali e l’impatto sanitario», elaborato dal Comitato scientifico di garanzia istituito dalla Regione Sicilia in vista della realizzazione di 6 nuovi megainceneritori, e da lui stesso presieduto. Lo studio riporta che «su 46 pubblicazioni considerate, 13 avevano studiato gli effetti sui lavoratori degli impianti, mentre dei rimanenti 33 studi considerati, solo 7 riguardavano inceneritori di rifiuti solidi urbani. Tra questi, uno aveva analizzato la mortalità per cancro tra i residenti intorno ad inceneritori nel Regno Unito.


 Quest’ultimo studio - secondo Veronesi - appare il più rilevante ai fini di una valutazione se esista o meno un rischio più elevato di cancro tra la popolazione generale residente nelle vicinanze di inceneritori. Innanzitutto aveva coinvolto 14 milioni di soggetti seguiti per tempi fino a 13 anni che vivevano intorno a 72 inceneritori di rifiuti urbani, alcuni del quali vetusti. Inoltre era stato condotto da ricercatori dell’Unità di Epidemiologia Ambientale del Dipartimento di Salute Pubblica del London School of Hygiene con l’utilizzo di tecniche statistiche originali. L’ipotesi dello studio si poggiava sul fatto che si sarebbe dovuto osservare un declino del numero di casi di cancro allontanandosi dalla fonte emittente, nel caso che quest’ultima avesse avuto un ruolo causale, ovviamente nella consueta assenza di livelli misurati di inquinanti nella zona in studio. La conclusione degli autori è che non è stata trovata alcuna evidenza di diversità d’incidenza e mortalità per cancro nei 7,5 chilometri di raggio studiati ed in particolare nessun declino con la distanza dall’inceneritore per tutti i tumori: stomaco, colon-retto e polmone oltre che per linfoma di Hodgkin e sarcomi dei tessuti molli. Rimaneva una piccola incertezza per il tumore del fegato, più che altro legata ad errori diagnostici come l’attribuzione, come primitivi, di tumori secondari del fegato». «Alcuni anni prima, nel 2001, - prosegue lo studio elaborato dall’équipe coordinata da Veronesi - Hu e Shy avevano condotto una revisione degli studi epidemiologici pubblicati fino allora. Questi autori avevano considerato tutti i possibili effetti che potevano essere collegati alla presenza di un inceneritore, arrivando alla conclusione che gli studi epidemiologici esaminati erano concordi nel descrivere più elevati livelli corporei di alcuni composti chimici organici e di metalli pesanti, ma nessun aumento di sintomi respiratori o di declino della funzione polmonare. Le analisi effettuate avevano fornito risultati inconsistenti per rischio di cancro e di effetti sulla riproduzione». Inoltre, tutte e tre le grandi revisioni degli studi condotti negli ultimi 20 anni, focalizzati sui possibili effetti sulla salute dei residenti nel raggio di ricaduta delle emissioni di inceneritori di rifiuti urbani e pubblicati negli anni 2001-2007, condurrebbero a risultati sovrapponibili. Secondo Veronesi e colleghi «i dati di mortalità per tutte le cause e per tumori, di morbilità per affezioni delle vie respiratorie e di possibile incremento di effetti sulla riproduzione, sono del tutto inconsistenti e pertanto non provano l’esistenza di un qualsiasi nesso causale tra presenza di inceneritori di Rsu e rischio per la salute di popolazioni residenti, nel raggio di ricaduta delle loro emissioni».




Germania, delocalizzare non conviene più.













Dopo 15 anni di esodo a oriente, le imprese tedesche tornano in patria

Motivo:scarsa qualità dei prodotti e carenza di manodopera qualificata
 

Matteo Alviti

Berlino

Ma chi l'ha detto che delocalizzare conviene? Infrastrutture carenti, scarsa qualità dei prodotti, carenza di manodopera qualificata e poca affidabilità costano caro. L'eldorado che gli imprenditori tedeschi pensavano di poter trovare nell'est europeo e, ancora più in là, in Asia, in pochi anni si è trasformato per molti di loro in un'arma a doppio taglio.

Dopo quindici anni in cui migliaia di aziende hanno chiuso gli stabilimenti locali per prendere la via che porta a oriente, oggi gli istituti di ricerca tedeschi hanno iniziato a registrare il fenomeno opposto: il ritorno in patria dei disillusi. Sono soprattutto le piccole e medie imprese a fare i bagagli, resesi conto di aver sopravvalutato i risparmi sul costo del lavoro e sulla tassazione, scrive der Spiegel . Per ora i grandi nomi restano all'estero. Ma non per questo si tratta di un fenomeno meno rilevante, considerato che anche in Germania piccole e medie imprese sono il cuore dell'economia.

L'Istituto Fraunhofer (IF) di Karlsruhe si sta occupando del fenomeno da tempo. Nell'arco di due anni i ricercatori hanno registrato la delocalizzazione di parte o di tutta la produzione di circa 6500 imprese del settore metallurgico, elettrotecnico, chimico e tessile. Due anni dopo 1200 hanno già fatto ritorno in patria. Dal 2000 sono circa 3500 le aziende del solo settore metallurgico e chimico ad essere tornate in Germania.

Anche la confindustria tedesca (Bdi) ha registrato il fenomeno, insieme all'aumento degli investimenti in Germania e al calo di quelli esteri. «Nel settore dell'ingegneria meccanica il trend della delocalizzazione non esiste praticamente più», ha ammesso Dieter Brucklacher, presidente dell'Associazione dei produttori meccanici e d'impianti. Ma le imprese, per conto loro, non hanno grande interesse alla pubblicizzazione del ritorno in patria: temono il danno d'immagine per i falliti investimenti.

Secondo i ricercatori dell'IF un elemento decisivo per l'inversione del processo di delocalizzazione è stato l'allargamento a est dell'Unione europea. Dal 2004 i salari in quei paesi sono in costante aumento. In Polonia, per fare un esempio, negli ultimi quattro anni gli stipendi sono aumentati del 40%. Mentre la produttività dei lavoratori rimane per ora molto al di sotto di quella dei paesi membri più anziani.

In Germania, inoltre, la compressione dei salari degli ultimi anni e il contemporaneo aumento della produttività hanno ridotto il costo per unità di prodotto del 3,6% solo nel 2006. Secondo l'Ufficio federale di statistiche la produttività dei lavoratori tedeschi tra il 1991 e il 2006 è aumentata complessivamente del 22,5%.

Del ritorno in patria delle aziende beneficia, ovviamente, l'occupazione. Il piccolo boom che la Germania sta vivendo negli ultimi due anni ha ridotto notevolmente il numero dei disoccupati, che anche nel mese di settembre è sceso di 162mila unità, arrivando alla cifra complessiva di 3,543 milioni di persone, l'8,4%, la più bassa degli ultimi 12 anni. Anche se il tasso di disoccupazione destagionalizzato è pari all'8,8%, si tratta comunque di un calo sensibile rispetto al 10,3% registrato solo l'anno scorso.

L'inversione di tendenza risulta ancora più importante se si considerano i dati degli ultimi 15 anni. Tra il 1990 e il 2004 gli investimenti delle imprese tedesche nei dieci paesi entrati nell'Ue nel 2004 sono passati da 348 milioni di euro a 41,4 miliardi di euro. Mentre il numero di occupati nelle affiliate locali delle imprese tedesche è salito da 31mila a 757mila persone. Contemporaneamente in Germania l'occupazione era scesa di 120mila unità.

Ma l'errore che molte aziende hanno commesso è stato quello di non considerare appieno le spese che il ritardo di sviluppo nelle infrastrutture, nella formazione delle maestranze e nella burocrazia dei paesi esteri avrebbero comportato. Il Centro per la razionalizzazione e l'innovazione dell'economia tedesca (Cri), citato dallo Spiegel , ha fatto bene i conti in tasca alle imprese che hanno scelto di delocalizzare e ha potuto così stimare che il guadagno medio del 14% lordo ottenuto sul costo del lavoro poteva essere ridotto da altri fattori e dalla razionalizzazione delle spese negli impianti tedeschi al 2,5% lordo. Troppo poco per imbarcarsi in una simile avventura.

Non sono solo però le industrie tedesche a riaprire le fabbriche in Germania. L'alto sviluppo tecnologico, la qualità della ricerca e delle infrastrutture attirano sempre più investitori stranieri. E' il caso della Rolls Royce, che ha spostato la produzione da Derby, in Inghilterra, a Dahlewitz, in Brandeburgo, dove procede da anni un progetto di collaborazione con l'università di Cottbus per lo sviluppo tecnologico. Ed è anche il caso della Red Hat, impresa statunitense per lo sviluppo di software, e della General Electric, che si sono trasferiti nella costosa, ma tecnologicamente avanzatissima Baviera, e della Hyundai, della Honda e della Panasonic, imprese asiatiche che hanno scelto di puntare su qualità e la ricerca.





Liberazione 25/11/2007


Germania, delocalizzare non conviene più.













Dopo 15 anni di esodo a oriente, le imprese tedesche tornano in patria

Motivo:scarsa qualità dei prodotti e carenza di manodopera qualificata
 

Matteo Alviti

Berlino

Ma chi l'ha detto che delocalizzare conviene? Infrastrutture carenti, scarsa qualità dei prodotti, carenza di manodopera qualificata e poca affidabilità costano caro. L'eldorado che gli imprenditori tedeschi pensavano di poter trovare nell'est europeo e, ancora più in là, in Asia, in pochi anni si è trasformato per molti di loro in un'arma a doppio taglio.

Dopo quindici anni in cui migliaia di aziende hanno chiuso gli stabilimenti locali per prendere la via che porta a oriente, oggi gli istituti di ricerca tedeschi hanno iniziato a registrare il fenomeno opposto: il ritorno in patria dei disillusi. Sono soprattutto le piccole e medie imprese a fare i bagagli, resesi conto di aver sopravvalutato i risparmi sul costo del lavoro e sulla tassazione, scrive der Spiegel . Per ora i grandi nomi restano all'estero. Ma non per questo si tratta di un fenomeno meno rilevante, considerato che anche in Germania piccole e medie imprese sono il cuore dell'economia.

L'Istituto Fraunhofer (IF) di Karlsruhe si sta occupando del fenomeno da tempo. Nell'arco di due anni i ricercatori hanno registrato la delocalizzazione di parte o di tutta la produzione di circa 6500 imprese del settore metallurgico, elettrotecnico, chimico e tessile. Due anni dopo 1200 hanno già fatto ritorno in patria. Dal 2000 sono circa 3500 le aziende del solo settore metallurgico e chimico ad essere tornate in Germania.

Anche la confindustria tedesca (Bdi) ha registrato il fenomeno, insieme all'aumento degli investimenti in Germania e al calo di quelli esteri. «Nel settore dell'ingegneria meccanica il trend della delocalizzazione non esiste praticamente più», ha ammesso Dieter Brucklacher, presidente dell'Associazione dei produttori meccanici e d'impianti. Ma le imprese, per conto loro, non hanno grande interesse alla pubblicizzazione del ritorno in patria: temono il danno d'immagine per i falliti investimenti.

Secondo i ricercatori dell'IF un elemento decisivo per l'inversione del processo di delocalizzazione è stato l'allargamento a est dell'Unione europea. Dal 2004 i salari in quei paesi sono in costante aumento. In Polonia, per fare un esempio, negli ultimi quattro anni gli stipendi sono aumentati del 40%. Mentre la produttività dei lavoratori rimane per ora molto al di sotto di quella dei paesi membri più anziani.

In Germania, inoltre, la compressione dei salari degli ultimi anni e il contemporaneo aumento della produttività hanno ridotto il costo per unità di prodotto del 3,6% solo nel 2006. Secondo l'Ufficio federale di statistiche la produttività dei lavoratori tedeschi tra il 1991 e il 2006 è aumentata complessivamente del 22,5%.

Del ritorno in patria delle aziende beneficia, ovviamente, l'occupazione. Il piccolo boom che la Germania sta vivendo negli ultimi due anni ha ridotto notevolmente il numero dei disoccupati, che anche nel mese di settembre è sceso di 162mila unità, arrivando alla cifra complessiva di 3,543 milioni di persone, l'8,4%, la più bassa degli ultimi 12 anni. Anche se il tasso di disoccupazione destagionalizzato è pari all'8,8%, si tratta comunque di un calo sensibile rispetto al 10,3% registrato solo l'anno scorso.

L'inversione di tendenza risulta ancora più importante se si considerano i dati degli ultimi 15 anni. Tra il 1990 e il 2004 gli investimenti delle imprese tedesche nei dieci paesi entrati nell'Ue nel 2004 sono passati da 348 milioni di euro a 41,4 miliardi di euro. Mentre il numero di occupati nelle affiliate locali delle imprese tedesche è salito da 31mila a 757mila persone. Contemporaneamente in Germania l'occupazione era scesa di 120mila unità.

Ma l'errore che molte aziende hanno commesso è stato quello di non considerare appieno le spese che il ritardo di sviluppo nelle infrastrutture, nella formazione delle maestranze e nella burocrazia dei paesi esteri avrebbero comportato. Il Centro per la razionalizzazione e l'innovazione dell'economia tedesca (Cri), citato dallo Spiegel , ha fatto bene i conti in tasca alle imprese che hanno scelto di delocalizzare e ha potuto così stimare che il guadagno medio del 14% lordo ottenuto sul costo del lavoro poteva essere ridotto da altri fattori e dalla razionalizzazione delle spese negli impianti tedeschi al 2,5% lordo. Troppo poco per imbarcarsi in una simile avventura.

Non sono solo però le industrie tedesche a riaprire le fabbriche in Germania. L'alto sviluppo tecnologico, la qualità della ricerca e delle infrastrutture attirano sempre più investitori stranieri. E' il caso della Rolls Royce, che ha spostato la produzione da Derby, in Inghilterra, a Dahlewitz, in Brandeburgo, dove procede da anni un progetto di collaborazione con l'università di Cottbus per lo sviluppo tecnologico. Ed è anche il caso della Red Hat, impresa statunitense per lo sviluppo di software, e della General Electric, che si sono trasferiti nella costosa, ma tecnologicamente avanzatissima Baviera, e della Hyundai, della Honda e della Panasonic, imprese asiatiche che hanno scelto di puntare su qualità e la ricerca.





Liberazione 25/11/2007


lunedì 26 novembre 2007

Contro l'inceneritore in difesa della salute dei cittadini

 Tredici associazioni ambientaliste hanno lanciato una sottoscrizione in calce ad un documento in cui si chiede un riesame del piano provinciale dei rifiuti ed in particolare del progetto di incenerimento dei rifiuti solidi urbani.


Il territorio del nostro comune è direttamente interessato alla questione poichè il punto di maggior ricaduta degli inquinanti è collocato entro un raggio di tre chilometri e non si può certo far affidamento sui venti che soffiano da sud.


Sin dall'inizio abbiamo appoggiato l'encomiabile lavoro di contro informazione svolto da "Ambiente e salute" e dalle altre associazioni ambientaliste e abbiamo chiesto, inutilmente, che anche l'amministrazione di Laives prendesse posizione.


Oggi vi è la possibilità di fare qualcosa di concreto e pertanto invitiamo tutti a sottoscrivere l'appello inviando un messaggio al seguente indirizzo


appello@ambientesalute.org


Per maggiori informazioni e per il testo dell'appello l'indirizzo è


www.ambientesalute.org/


Rifondazione Comunista - Laives 

Contro l'inceneritore in difesa della salute dei cittadini

 Tredici associazioni ambientaliste hanno lanciato una sottoscrizione in calce ad un documento in cui si chiede un riesame del piano provinciale dei rifiuti ed in particolare del progetto di incenerimento dei rifiuti solidi urbani.


Il territorio del nostro comune è direttamente interessato alla questione poichè il punto di maggior ricaduta degli inquinanti è collocato entro un raggio di tre chilometri e non si può certo far affidamento sui venti che soffiano da sud.


Sin dall'inizio abbiamo appoggiato l'encomiabile lavoro di contro informazione svolto da "Ambiente e salute" e dalle altre associazioni ambientaliste e abbiamo chiesto, inutilmente, che anche l'amministrazione di Laives prendesse posizione.


Oggi vi è la possibilità di fare qualcosa di concreto e pertanto invitiamo tutti a sottoscrivere l'appello inviando un messaggio al seguente indirizzo


appello@ambientesalute.org


Per maggiori informazioni e per il testo dell'appello l'indirizzo è


www.ambientesalute.org/


Rifondazione Comunista - Laives 

domenica 25 novembre 2007

Porno prof al bando. e dopo lei a chi tocca?








 Liberazione, 24/11/2007 


Gaia Maqi Giuliani

Vi ricordate di un film che narra di una donna che per una serie di frustrazioni (almeno questa è la chiave di lettura che sembra voler dare il regista) ha una cosiddetta doppia vita? Maestra per sordomuti di giorno e viveur dalla variegata e vivace vita sessuale di notte? Lei veniva chiamata Mrs. Goodbar, al secolo Diane Keaton, giovane donna attraente e un po' sconsiderata che alla ricerca di avventure si aggirava tra i bar della Grande Mela. Questo film di Richard Brooks esce nel 1977. Lei faceva proprio una brutta fine, uccisa a pugnalate da un uomo perché si era permessa di ridere della sua temporanea mancanza di erezione… Dunque, oggi siamo nel 2007, ovvero trent'anni dopo. Abbiamo un fatto di cronaca che istiga ad una lettura analoga di una storia che potremmo considerare simile. Lei questa volta non viene uccisa, ma solo espulsa dal lavoro e esposta al ludibrio dell'Italietta della doppia morale. La porno-prof, come l'hanno chiamata, è una donna che ha due (o più) interessi nella vita: uno a che vedere con l'insegnamento, l'altro con l'erotismo e la pornografia. Sicuramente questi due interessi, per il fatto di essere praticati entrambi nella sfera pubblica, configgono sul piano dell'accettazione morale e dell'etichetta che si addice ad una persona che, per il ruolo di docente che svolge, ha a che vedere con l'autorevolezza e il buon esempio. Almeno così ci dicono. Allora la produzione di porno e la sua apparizione pubblica alla fiera dell'erotismo di Berlino non possono essere assolutamente conciliati con il ruolo pedagogico che svolge. Se si seguisse quest'argomentazione, si potrebbero anche capire le ragioni dell'Italietta moralista e retrograda, rappresentata da molti esponenti politici di entrambi gli schieramenti, che si è arrogata il diritto di giudicare se lei sia in grado di svolgere il proprio lavoro a partire da ciò che non fa a scuola. Il problema però, deriva proprio dal fatto che si tratta di un giudizio rivolto più alla sua condotta morale che alle sue capacità e competenze professionali. Ciò che risulta sicuramente inaccettabile è, infatti, il fatto che questa persona non possa esercitare la propria professione con persone adulte, come stava facendo prima che il direttore scolastico regionale del Friuli Venezia Giulia, Ugo Panetta, la sospendesse da ogni incarico scolastico. A lei viene così negata la possibilità di trovare, per sé e con gli altri, un equilibrio rispetto ai "propri interessi". Chi deve essere tutelato? Studenti adulti con una riconosciuta capacità di intendere e volere e nel pieno delle loro facoltà? Di cosa si teme? Che lo Stato italiano che l'assume come docente venga screditato nella sua figura di soggetto pubblico deputato ad elargire visioni restrittive e censorie della libera espressione umana? Sta per caso attuando condotte fuorilegge? O è di nuovo il caso di una donna, che proprio per il fatto d'esser tale, e al fine di avere la stessa autorevolezza dei suoi colleghi maschi, deve dimostrare di essere moralmente più integra degli uomini? Se fosse stato un uomo a esporre su internet i propri filmati? E poi ancora: cos'è quest'ossessione di internet come veicolo di Satana? Se l'esposizione del proprio corpo e della propria sessualità in pubblico continua ad essere una questione di censura, piuttosto di educazione della popolazione di tutte le età ad uno sguardo critico verso la morale imposta, potremmo approdare, in un futuro che è già presente, a vere e proprie aberrazioni. Proviamo a fare qualche parallelo: docente attivista che va al Pride e viene fotografata mezzo nuda: espulsa; maestra lesbica che bacia appassionatamente la propria compagna in strada: espulsa; docente donna che va in una spiaggia nudista: espulsa; professoressa precaria che fa la escort per arrotondare (beccata forse perché un genitore le ha pagato l'onorario): espulsa; ricercatrice che lavora ad un telefono erotico, maestra che sfila per i diritti delle prostitute, professoressa che ama la lap-dance…madre amante di house-movie pornografici che gira insieme al marito e che mette sul web: se fossimo coerenti con l'argomentazione della ministra Ragni, secondo cui bisogna «agire senza commentare», bisognerebbe affidare i figli di questa coppia ai servizi sociali, perché "incapace" di assolvere ai propri oneri pedagogici… La nostra fiera porno-professoressa è stata prima spostata ad un altro incarico, poi, perché "recidiva" nelle sue apparizioni osé, è stata espulsa dal sistema scolastico: cosa dovrebbe fare allora? Se, a differenza della Diane Keaton di Looking for Mrs. Goodbar , lei non fosse assolutamente una donna frustrata ma una persona che ha trovato felicemente ed orgogliosamente un modo per realizzare la propria sessualità, cosa dovrebbe fare? Optare per l'autocastrazione e diventare una "donna per bene" affinché il proprio lavoro, fatto magari con costanza e dedizione possa venirle riconosciuto? Nel mondo immaginario di un'Italia migliore potremmo augurarci che venisse assunta come docente di educazione sessuale, a patto che fosse quello che lei desidera.


Porno prof al bando. e dopo lei a chi tocca?








 Liberazione, 24/11/2007 


Gaia Maqi Giuliani

Vi ricordate di un film che narra di una donna che per una serie di frustrazioni (almeno questa è la chiave di lettura che sembra voler dare il regista) ha una cosiddetta doppia vita? Maestra per sordomuti di giorno e viveur dalla variegata e vivace vita sessuale di notte? Lei veniva chiamata Mrs. Goodbar, al secolo Diane Keaton, giovane donna attraente e un po' sconsiderata che alla ricerca di avventure si aggirava tra i bar della Grande Mela. Questo film di Richard Brooks esce nel 1977. Lei faceva proprio una brutta fine, uccisa a pugnalate da un uomo perché si era permessa di ridere della sua temporanea mancanza di erezione… Dunque, oggi siamo nel 2007, ovvero trent'anni dopo. Abbiamo un fatto di cronaca che istiga ad una lettura analoga di una storia che potremmo considerare simile. Lei questa volta non viene uccisa, ma solo espulsa dal lavoro e esposta al ludibrio dell'Italietta della doppia morale. La porno-prof, come l'hanno chiamata, è una donna che ha due (o più) interessi nella vita: uno a che vedere con l'insegnamento, l'altro con l'erotismo e la pornografia. Sicuramente questi due interessi, per il fatto di essere praticati entrambi nella sfera pubblica, configgono sul piano dell'accettazione morale e dell'etichetta che si addice ad una persona che, per il ruolo di docente che svolge, ha a che vedere con l'autorevolezza e il buon esempio. Almeno così ci dicono. Allora la produzione di porno e la sua apparizione pubblica alla fiera dell'erotismo di Berlino non possono essere assolutamente conciliati con il ruolo pedagogico che svolge. Se si seguisse quest'argomentazione, si potrebbero anche capire le ragioni dell'Italietta moralista e retrograda, rappresentata da molti esponenti politici di entrambi gli schieramenti, che si è arrogata il diritto di giudicare se lei sia in grado di svolgere il proprio lavoro a partire da ciò che non fa a scuola. Il problema però, deriva proprio dal fatto che si tratta di un giudizio rivolto più alla sua condotta morale che alle sue capacità e competenze professionali. Ciò che risulta sicuramente inaccettabile è, infatti, il fatto che questa persona non possa esercitare la propria professione con persone adulte, come stava facendo prima che il direttore scolastico regionale del Friuli Venezia Giulia, Ugo Panetta, la sospendesse da ogni incarico scolastico. A lei viene così negata la possibilità di trovare, per sé e con gli altri, un equilibrio rispetto ai "propri interessi". Chi deve essere tutelato? Studenti adulti con una riconosciuta capacità di intendere e volere e nel pieno delle loro facoltà? Di cosa si teme? Che lo Stato italiano che l'assume come docente venga screditato nella sua figura di soggetto pubblico deputato ad elargire visioni restrittive e censorie della libera espressione umana? Sta per caso attuando condotte fuorilegge? O è di nuovo il caso di una donna, che proprio per il fatto d'esser tale, e al fine di avere la stessa autorevolezza dei suoi colleghi maschi, deve dimostrare di essere moralmente più integra degli uomini? Se fosse stato un uomo a esporre su internet i propri filmati? E poi ancora: cos'è quest'ossessione di internet come veicolo di Satana? Se l'esposizione del proprio corpo e della propria sessualità in pubblico continua ad essere una questione di censura, piuttosto di educazione della popolazione di tutte le età ad uno sguardo critico verso la morale imposta, potremmo approdare, in un futuro che è già presente, a vere e proprie aberrazioni. Proviamo a fare qualche parallelo: docente attivista che va al Pride e viene fotografata mezzo nuda: espulsa; maestra lesbica che bacia appassionatamente la propria compagna in strada: espulsa; docente donna che va in una spiaggia nudista: espulsa; professoressa precaria che fa la escort per arrotondare (beccata forse perché un genitore le ha pagato l'onorario): espulsa; ricercatrice che lavora ad un telefono erotico, maestra che sfila per i diritti delle prostitute, professoressa che ama la lap-dance…madre amante di house-movie pornografici che gira insieme al marito e che mette sul web: se fossimo coerenti con l'argomentazione della ministra Ragni, secondo cui bisogna «agire senza commentare», bisognerebbe affidare i figli di questa coppia ai servizi sociali, perché "incapace" di assolvere ai propri oneri pedagogici… La nostra fiera porno-professoressa è stata prima spostata ad un altro incarico, poi, perché "recidiva" nelle sue apparizioni osé, è stata espulsa dal sistema scolastico: cosa dovrebbe fare allora? Se, a differenza della Diane Keaton di Looking for Mrs. Goodbar , lei non fosse assolutamente una donna frustrata ma una persona che ha trovato felicemente ed orgogliosamente un modo per realizzare la propria sessualità, cosa dovrebbe fare? Optare per l'autocastrazione e diventare una "donna per bene" affinché il proprio lavoro, fatto magari con costanza e dedizione possa venirle riconosciuto? Nel mondo immaginario di un'Italia migliore potremmo augurarci che venisse assunta come docente di educazione sessuale, a patto che fosse quello che lei desidera.


La riqualificazione urbana di S. Giacomo

Statale, ritardi nei lavori "Si parte in primavera"


Alto Adige, 25 novembre 2007


LAIVES. Si accumula il ritardo per la riqualificazione urbana della statale 12 a San Giacomo e il consigliere Rosario Grasso (Rifondazione) ne ha chiesto conto all’assessore competente, Giorgio Zanvettor.

«La risposta dell’assessore - dice Grasso - è che il problema si è manifestato quando il progettista incaricato ha avuto a che fare con il Catasto. Zanvettor mi ha comunque assicurato che questi contrattempi si dovrebbero risolvere a breve e che in primavera l’intervento potrebbe iniziare. Io ho manifestato le mie perplessità in merito a queste giustificazioni ufficiali perché credo che il problema in realtà sia stato un altro.

Zanvettor ha anche aggiunto che il prossimo anno incomincerà il primo lotto di lavori, quelli che riguardano la riqualificazione alla periferia sud di San Giacomo fino all’incrocio tra la statale e via Anton Thaler, mentre per il secondo lotto, che dovrebbe raggiungere il confine con il territorio di Bolzano mediante la pista ciclabile in centro, intanto non se ne parla».



 Per quest’ultimo intervento però parte dei soldi necessari sono già a disposizione dell’amministrazione comunale da tempo. (b.c.)


La riqualificazione urbana di S. Giacomo

Statale, ritardi nei lavori "Si parte in primavera"


Alto Adige, 25 novembre 2007


LAIVES. Si accumula il ritardo per la riqualificazione urbana della statale 12 a San Giacomo e il consigliere Rosario Grasso (Rifondazione) ne ha chiesto conto all’assessore competente, Giorgio Zanvettor.

«La risposta dell’assessore - dice Grasso - è che il problema si è manifestato quando il progettista incaricato ha avuto a che fare con il Catasto. Zanvettor mi ha comunque assicurato che questi contrattempi si dovrebbero risolvere a breve e che in primavera l’intervento potrebbe iniziare. Io ho manifestato le mie perplessità in merito a queste giustificazioni ufficiali perché credo che il problema in realtà sia stato un altro.

Zanvettor ha anche aggiunto che il prossimo anno incomincerà il primo lotto di lavori, quelli che riguardano la riqualificazione alla periferia sud di San Giacomo fino all’incrocio tra la statale e via Anton Thaler, mentre per il secondo lotto, che dovrebbe raggiungere il confine con il territorio di Bolzano mediante la pista ciclabile in centro, intanto non se ne parla».



 Per quest’ultimo intervento però parte dei soldi necessari sono già a disposizione dell’amministrazione comunale da tempo. (b.c.)


sabato 24 novembre 2007

Cittadella dello sport? No, grazie senza il centro sportivo provinciale

Il centro sportivo Galizia è il risultato di scelte poco ponderate delle passate amministrazioni, ma di cui sono responsabili anche singoli rappresentanti dell’attuale maggioranza. Sinora, infatti, questa struttura, più che rispondere alle effettive necessità della popolazione, si è rivelata un peso per le esauste casse del comune.


La decisione dunque di attirare sul territorio comunale l’FC-Südtirol appare quasi una scelta obbligata al fine di porre un freno alle spese per la manutenzione del centro. Occorre però che lo specchietto per allodole dei soldi provinciali, non faccia incorrere in nuovi errori di cui presto potremmo pentirci.


Ciò che dovrebbe far riflettere sono due aspetti in parte già sottolineati dall’unica voce fuori dal coro che si è espressa  sinora, ma che sembra non aver trovato ascolto alcuno.


Il primo è il rifiuto di altri comuni altoatesini di accollarsi uno stadio da ottomila posti e la brama con cui, di contro, si appetisce al centro sportivo provinciale. Quest’ultimo infatti prevede la costruzione di un centro di medicina dello sport e di fisioterapia che costituiscono naturalmente la parte più allettante e maggiormente qualificante dell’intero progetto.


L’altro aspetto su cui riflettere è invece l’arrivo nel fine settimana, cioè nell’unico momento in cui Laives si libera dalla morsa del traffico e dal relativo inquinamento, di migliaia di automobili per le quali è già previsto un megaparcheggio.


La miriade di tifosi provenienti anche da fuori provincia, è inutile nasconderlo, non porteranno che limitati benefici all’economia della nostra città, ma rischiano invece di  costituire un problema di difficile gestione.


Una struttura dal così forte impatto sulla nostra comunità richiede dunque che i cittadini vengano coinvolti e che soprattutto vengano messi nella condizione di  poter prendere una decisione consapevole. Occorre un’informazione completa e capillare che metta in luce i vantaggi e gli svantaggi di una scelta eliminando gli equivoci che ancora sussistono tra cittadella dello sport e centro sportivo provinciale.


Da parte nostra riteniamo che se si vuole dar vita ad una struttura che sia realmente al servizio dei nostri concittadini, dei giovani, delle associazioni sportive, non si possa e non si debba assolutamente rinunciare alle infrastrutture più qualificanti: un centro di medicina sportiva e di riabilitazione fisioterapica costituiscono infatti un polo di eccellenza, possono essere effettivamente utili alla nostra comunità e pertanto giustificherebbero l’accoglimento sul nostro territorio di un’opera così impattante, ma non al servizio della nostra comunità, come uno stadio.


 


Rifondazione Comunista - Laives

Cittadella dello sport? No, grazie senza il centro sportivo provinciale

Il centro sportivo Galizia è il risultato di scelte poco ponderate delle passate amministrazioni, ma di cui sono responsabili anche singoli rappresentanti dell’attuale maggioranza. Sinora, infatti, questa struttura, più che rispondere alle effettive necessità della popolazione, si è rivelata un peso per le esauste casse del comune.


La decisione dunque di attirare sul territorio comunale l’FC-Südtirol appare quasi una scelta obbligata al fine di porre un freno alle spese per la manutenzione del centro. Occorre però che lo specchietto per allodole dei soldi provinciali, non faccia incorrere in nuovi errori di cui presto potremmo pentirci.


Ciò che dovrebbe far riflettere sono due aspetti in parte già sottolineati dall’unica voce fuori dal coro che si è espressa  sinora, ma che sembra non aver trovato ascolto alcuno.


Il primo è il rifiuto di altri comuni altoatesini di accollarsi uno stadio da ottomila posti e la brama con cui, di contro, si appetisce al centro sportivo provinciale. Quest’ultimo infatti prevede la costruzione di un centro di medicina dello sport e di fisioterapia che costituiscono naturalmente la parte più allettante e maggiormente qualificante dell’intero progetto.


L’altro aspetto su cui riflettere è invece l’arrivo nel fine settimana, cioè nell’unico momento in cui Laives si libera dalla morsa del traffico e dal relativo inquinamento, di migliaia di automobili per le quali è già previsto un megaparcheggio.


La miriade di tifosi provenienti anche da fuori provincia, è inutile nasconderlo, non porteranno che limitati benefici all’economia della nostra città, ma rischiano invece di  costituire un problema di difficile gestione.


Una struttura dal così forte impatto sulla nostra comunità richiede dunque che i cittadini vengano coinvolti e che soprattutto vengano messi nella condizione di  poter prendere una decisione consapevole. Occorre un’informazione completa e capillare che metta in luce i vantaggi e gli svantaggi di una scelta eliminando gli equivoci che ancora sussistono tra cittadella dello sport e centro sportivo provinciale.


Da parte nostra riteniamo che se si vuole dar vita ad una struttura che sia realmente al servizio dei nostri concittadini, dei giovani, delle associazioni sportive, non si possa e non si debba assolutamente rinunciare alle infrastrutture più qualificanti: un centro di medicina sportiva e di riabilitazione fisioterapica costituiscono infatti un polo di eccellenza, possono essere effettivamente utili alla nostra comunità e pertanto giustificherebbero l’accoglimento sul nostro territorio di un’opera così impattante, ma non al servizio della nostra comunità, come uno stadio.


 


Rifondazione Comunista - Laives

giovedì 22 novembre 2007

Salari e stipendi, le donne restano ultime













Rapporto Isfol, generazione di giovani precari e di disoccupati over 55
"Liberazione" 20.11.2007




Maria Sole Guadagni


In Italia il lavoro è sempre più a termine. Soprattutto per le donne e i giovani che quando, dopo tanta fatica, riescono ad trovare un salario devono accontentarsi di un contratto atipico. E' quanto emerge dai dati sull'occupazione contenuti nel ventinovesimo rapporto dell'Isfol (Istituto per la Formazione dei Lavoratori) e presentati ieri dal presidente dell'istituto Sergio Trevisanato. Una fotografia che non lascia ben sperare per chi sogna il posto fisso, il lavoro atipico, infatti, coinvolge tra le 3,5 e i 4,5 milioni di persone. Meno della metà di questi contratti, inoltre, sono stati rinnovati almeno una volta e tra gli "under 30" solo il 53% ha un contratto a tempo indeterminato.

Insomma il lavoro, come si legge nel rapporto, è sempre più a termine e coinvolge dieci italiani su cento costretti a destreggiarsi tra contratti a tempo, di apprendistato o percorsi interinali. Ma sono ancora di più se a questi si aggiungono il 5,7% dei lavoratori che hanno solo un contratto di collaborazione. Che siano contratti co.co.pro o co.co.co, le cose non cambiano, il presente è l'unico tempo di vita possibile, attrezzarsi per il futuro è di fatto negato per quanti e quante lavorano a termine. Una fetta di popolazione che però ha dato i suoi frutti, sostiene l'Isfol: un record, l'aumento degli occupati che, nel 2006, hanno sfiorato quota 23 milioni. Un traguardo storico, spiegano con dovizia di particolari gli autori del rapporto, sia in termini assoluti sia in termini di percentuale di crescita annuale (+2%).

Il tasso di disoccupazione, analizzano i relatori, si è contratto al 6%, con una contestuale forte riduzione (tre volte quella registrata nel 2005) dei disoccupati di lunga durata. Una tendenza positiva, ma che ha una spiegazione ben precisa: circa la metà dei 425mila nuovi posti di lavoro del 2006, è a termine (+9,7% rispetto al 2005). In questo scenario, inoltre, permane un profondo dualismo nel divario territoriale Nord-Sud, una persistente difficoltà all'inserimento nel mondo del lavoro per le donne e gli over 55, mentre aumenta lo scontento e i lavori reali si allontanano sempre di più dalle aspettative delle persone, a causa della precarietà, delle esigue retribuzioni e delle scarse possibilità di carriera.

Effetti diretti (o collaterali, dipende dai punti di vista)? La flessione dei tassi di attività che svelano come ci siano ampi segmenti di popolazione in età attiva che non lavorano e non cercano lavoro. Se nello specifico sono donne la situazione è ancora peggiore. Il tasso di occupazione femminile, infatti, si attesta nel 2006 poco sotto il 47% contro il 70,7% degli uomini. E i salari sono più bassi. Sono le cifre a parlare: i salari delle lavoratrici sono in media inferiori del 25% di quelli dei lavoratori. A parità di contratto e di livello di inquadramento la differenza è del 15,8%. Tra le motivazioni prevalenti c'è l'orario di lavoro troppo lungo per essere conciliabile con gli impegni famigliari (67%) e inoltre l'80% dei lavoratori con contratto part-time è di genere femminile, anche se la scelta, nella stragrande maggioranza dei casi è obbligata e si ripercuote fortemente sulla retribuzione e le prospettive di carriera. Secondo l'Isfol, infatti, le donne che hanno ruoli di tipo dirigenziale a vari livelli sono il 22% contro il 38,5% degli uomini. Tuttavia si può notare che le donne accedono a posizioni di comando in tempi più rapidi rispetto agli uomini. (Ma quante sono? Dove sono? Non c'è dato sapere). L'altro "segmento" debole del mercato dell'occupazione è quello dei giovani. Il lavoro atipico, spiega la ricerca, coinvolge in maggioranza proprio questo segmento nel quale si trovano gli occupati a termine (compreso l'apprendistato) e i parasubordinati (occupati autonomi esposti a più vincoli di subordinazione). Se si includono i part-time involontari e tutti coloro che non conoscono la tipologia del proprio contratto di lavoro, nell'insieme la platea della atipicità massima è formata da poco più di 4,5 milioni di persone, pari a circa il 20% degli occupati.

Ampio spazio nel documento alla questione sicurezza. Quasi il 30 % dei lavoratori italiani ritiene a rischio la propria salute. Un lavoratore su tre, dunque, pensa che le sue condizioni di lavoro non siano sicure. La percentuale di chi non si sente al sicuro sale al 36% tra chi lavora più di 45 ore settimanali, al 40% tra gli operai e supera il 48% tra chi svolge almeno un turno notturno al mese. Quattro morti al giorno, sono un record da cui salvarsi.

Salari e stipendi, le donne restano ultime













Rapporto Isfol, generazione di giovani precari e di disoccupati over 55
"Liberazione" 20.11.2007




Maria Sole Guadagni


In Italia il lavoro è sempre più a termine. Soprattutto per le donne e i giovani che quando, dopo tanta fatica, riescono ad trovare un salario devono accontentarsi di un contratto atipico. E' quanto emerge dai dati sull'occupazione contenuti nel ventinovesimo rapporto dell'Isfol (Istituto per la Formazione dei Lavoratori) e presentati ieri dal presidente dell'istituto Sergio Trevisanato. Una fotografia che non lascia ben sperare per chi sogna il posto fisso, il lavoro atipico, infatti, coinvolge tra le 3,5 e i 4,5 milioni di persone. Meno della metà di questi contratti, inoltre, sono stati rinnovati almeno una volta e tra gli "under 30" solo il 53% ha un contratto a tempo indeterminato.

Insomma il lavoro, come si legge nel rapporto, è sempre più a termine e coinvolge dieci italiani su cento costretti a destreggiarsi tra contratti a tempo, di apprendistato o percorsi interinali. Ma sono ancora di più se a questi si aggiungono il 5,7% dei lavoratori che hanno solo un contratto di collaborazione. Che siano contratti co.co.pro o co.co.co, le cose non cambiano, il presente è l'unico tempo di vita possibile, attrezzarsi per il futuro è di fatto negato per quanti e quante lavorano a termine. Una fetta di popolazione che però ha dato i suoi frutti, sostiene l'Isfol: un record, l'aumento degli occupati che, nel 2006, hanno sfiorato quota 23 milioni. Un traguardo storico, spiegano con dovizia di particolari gli autori del rapporto, sia in termini assoluti sia in termini di percentuale di crescita annuale (+2%).

Il tasso di disoccupazione, analizzano i relatori, si è contratto al 6%, con una contestuale forte riduzione (tre volte quella registrata nel 2005) dei disoccupati di lunga durata. Una tendenza positiva, ma che ha una spiegazione ben precisa: circa la metà dei 425mila nuovi posti di lavoro del 2006, è a termine (+9,7% rispetto al 2005). In questo scenario, inoltre, permane un profondo dualismo nel divario territoriale Nord-Sud, una persistente difficoltà all'inserimento nel mondo del lavoro per le donne e gli over 55, mentre aumenta lo scontento e i lavori reali si allontanano sempre di più dalle aspettative delle persone, a causa della precarietà, delle esigue retribuzioni e delle scarse possibilità di carriera.

Effetti diretti (o collaterali, dipende dai punti di vista)? La flessione dei tassi di attività che svelano come ci siano ampi segmenti di popolazione in età attiva che non lavorano e non cercano lavoro. Se nello specifico sono donne la situazione è ancora peggiore. Il tasso di occupazione femminile, infatti, si attesta nel 2006 poco sotto il 47% contro il 70,7% degli uomini. E i salari sono più bassi. Sono le cifre a parlare: i salari delle lavoratrici sono in media inferiori del 25% di quelli dei lavoratori. A parità di contratto e di livello di inquadramento la differenza è del 15,8%. Tra le motivazioni prevalenti c'è l'orario di lavoro troppo lungo per essere conciliabile con gli impegni famigliari (67%) e inoltre l'80% dei lavoratori con contratto part-time è di genere femminile, anche se la scelta, nella stragrande maggioranza dei casi è obbligata e si ripercuote fortemente sulla retribuzione e le prospettive di carriera. Secondo l'Isfol, infatti, le donne che hanno ruoli di tipo dirigenziale a vari livelli sono il 22% contro il 38,5% degli uomini. Tuttavia si può notare che le donne accedono a posizioni di comando in tempi più rapidi rispetto agli uomini. (Ma quante sono? Dove sono? Non c'è dato sapere). L'altro "segmento" debole del mercato dell'occupazione è quello dei giovani. Il lavoro atipico, spiega la ricerca, coinvolge in maggioranza proprio questo segmento nel quale si trovano gli occupati a termine (compreso l'apprendistato) e i parasubordinati (occupati autonomi esposti a più vincoli di subordinazione). Se si includono i part-time involontari e tutti coloro che non conoscono la tipologia del proprio contratto di lavoro, nell'insieme la platea della atipicità massima è formata da poco più di 4,5 milioni di persone, pari a circa il 20% degli occupati.

Ampio spazio nel documento alla questione sicurezza. Quasi il 30 % dei lavoratori italiani ritiene a rischio la propria salute. Un lavoratore su tre, dunque, pensa che le sue condizioni di lavoro non siano sicure. La percentuale di chi non si sente al sicuro sale al 36% tra chi lavora più di 45 ore settimanali, al 40% tra gli operai e supera il 48% tra chi svolge almeno un turno notturno al mese. Quattro morti al giorno, sono un record da cui salvarsi.

mercoledì 21 novembre 2007

Salasso salari, in 5 anni persi 1.900 euro







Alto Adige - 20 NOVEMBRE 2007






















 
Denuncia Ires-Cgil. Cause: l’erosione fiscale e la mancata restituzione del fiscal drag
 
La proiezione riguarda la fascia di lavoratori con un reddito netto non superiore ai 25 mila euro
 

 ROMA. Dopo le tredicesime i salari, e quelli degli italiani non vanno affatto bene. Negli ultimi 5 anni le buste paga dei lavoratori, impiegati e operai in particolare, si sono alleggerite di una cifra che sfiora i duemila euro. Il risultato dei conti fatti in tasca agli stipendiati è contenuto nell’ultima indagine, «I salari dal 2002 al 2007», condotta dall’Istituto di ricerche economiche (Ires) in collaborazione con la Cgil. Mentre dal ministero dell’Economia arriva la replica alla notizia diffusa sabato dalla Cgia di Mestre sulle “tredicesime leggere”. La ricerca Ires-Cgil evidenzia che nell’arco di cinque anni, a partire dal 2002, chi aveva un reddito netto pari a 24.890 euro ha subito una perdita complessiva di 1.896 euro.

 Dei quali, 1.210 euro imputabili all’inflazione e 686 euro per la mancata restituzione del fiscal drag (aumento della pressione fiscale). L’emergenza di questo declino è tale che il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, richiama l’attenzione dell’esecutivo sulla necessità di aprire a gennaio un tavolo sulla politica dei redditi.

 «Se si dovesse aprire nel paese una fase costituente di riforme - precisa Epifani - non ci si può scordare del problema della crescita, della produttività e di una politica che sostenga i redditi delle famiglie, degli operai e degli impiegati».

 A peggiorare la condizione dei salariati un ulteriore allargamento della forbice a sfavore dei redditi bassi, dovuto alle «manovre fiscali del centro destra», come sottolinea Agostino Megale, presidente dell’Ires. Secondo i dati elaborati dagli esperti, il potere d’acquisto dei redditi di imprenditori e liberi professionisti è aumentato di 11.984 euro, mentre quello degli impiegati è diminuito di 3.047 euro e quello degli operai di 2.592 euro.

 L’Istituto specifica poi che, allo stato attuale, oltre quattordici milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 euro al mese, e più della metà (circa 7,3 milioni di persone) i 1000 euro al mese non li supera nemmeno. Tra gli impiegati generici, solo l’11,9% guadagna più di 1.300 euro. Il 13,2% non va oltre la soglia degli 800 euro, il 15% guadagna meno di 1000 euro ed il 24,9% oscilla tra 800 e 1000 euro.

 Non molto differenti le percentuali riguardanti gli stipendi degli operai specializzati. Tra gli impiegati di concetto invece, solo il 24,3% prende un salario superiore a 1.300 euro.

 Responsabili della modesta crescita delle retribuzioni, spiegano gli autori dell’indagine, sono lo scarto tra l’inflazione programmata e quella effettiva, i ritardi registrati nel rinnovo dei contratti e l’inadeguata retribuzione della produttività attraverso la contrattazione di secondo livello.

 L’inadeguato incremento retributivo è dovuto anche alla lenta crescita della produttività della nostra economia che dal 1998 al 2007 è aumenta solo del 3%, contro i valori registrati in Germania (8,5%), Regno Unito (20%) e Stati Uniti (addirittura punte del 25%).

 I salari più bassi in assoluto sono quelli dei giovani, classificati ai limiti della povertà visto che nessuno di loro supera i 900 euro mensili. L’indagine snocciola dati secondo cui, oggi, un apprendista con meno di 24 anni guadagna solo 736,85 euro al mese, un collaboratore occasionale 768,80, un co.co.pro o un co.co.co 899.

 Riguardo le “tredicesime leggere”, dal ministero dell’Economia fanno notare che 11 milioni di contribuenti sono stati favoriti dall’Irpef 2007, “grazie alle misure introdotte dal Governo”.

 E il vice ministro Vincenzo Visco afferma: «Vedo con piacere che anche la Cgia di Mestre riconosce finalmente che nel 2007 i lavoratori dipendenti con reddito meno elevato in Italia hanno avuto un guadagno fiscale».


ANNALISA D'APRILE