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martedì 27 novembre 2007

Germania, delocalizzare non conviene più.













Dopo 15 anni di esodo a oriente, le imprese tedesche tornano in patria

Motivo:scarsa qualità dei prodotti e carenza di manodopera qualificata
 

Matteo Alviti

Berlino

Ma chi l'ha detto che delocalizzare conviene? Infrastrutture carenti, scarsa qualità dei prodotti, carenza di manodopera qualificata e poca affidabilità costano caro. L'eldorado che gli imprenditori tedeschi pensavano di poter trovare nell'est europeo e, ancora più in là, in Asia, in pochi anni si è trasformato per molti di loro in un'arma a doppio taglio.

Dopo quindici anni in cui migliaia di aziende hanno chiuso gli stabilimenti locali per prendere la via che porta a oriente, oggi gli istituti di ricerca tedeschi hanno iniziato a registrare il fenomeno opposto: il ritorno in patria dei disillusi. Sono soprattutto le piccole e medie imprese a fare i bagagli, resesi conto di aver sopravvalutato i risparmi sul costo del lavoro e sulla tassazione, scrive der Spiegel . Per ora i grandi nomi restano all'estero. Ma non per questo si tratta di un fenomeno meno rilevante, considerato che anche in Germania piccole e medie imprese sono il cuore dell'economia.

L'Istituto Fraunhofer (IF) di Karlsruhe si sta occupando del fenomeno da tempo. Nell'arco di due anni i ricercatori hanno registrato la delocalizzazione di parte o di tutta la produzione di circa 6500 imprese del settore metallurgico, elettrotecnico, chimico e tessile. Due anni dopo 1200 hanno già fatto ritorno in patria. Dal 2000 sono circa 3500 le aziende del solo settore metallurgico e chimico ad essere tornate in Germania.

Anche la confindustria tedesca (Bdi) ha registrato il fenomeno, insieme all'aumento degli investimenti in Germania e al calo di quelli esteri. «Nel settore dell'ingegneria meccanica il trend della delocalizzazione non esiste praticamente più», ha ammesso Dieter Brucklacher, presidente dell'Associazione dei produttori meccanici e d'impianti. Ma le imprese, per conto loro, non hanno grande interesse alla pubblicizzazione del ritorno in patria: temono il danno d'immagine per i falliti investimenti.

Secondo i ricercatori dell'IF un elemento decisivo per l'inversione del processo di delocalizzazione è stato l'allargamento a est dell'Unione europea. Dal 2004 i salari in quei paesi sono in costante aumento. In Polonia, per fare un esempio, negli ultimi quattro anni gli stipendi sono aumentati del 40%. Mentre la produttività dei lavoratori rimane per ora molto al di sotto di quella dei paesi membri più anziani.

In Germania, inoltre, la compressione dei salari degli ultimi anni e il contemporaneo aumento della produttività hanno ridotto il costo per unità di prodotto del 3,6% solo nel 2006. Secondo l'Ufficio federale di statistiche la produttività dei lavoratori tedeschi tra il 1991 e il 2006 è aumentata complessivamente del 22,5%.

Del ritorno in patria delle aziende beneficia, ovviamente, l'occupazione. Il piccolo boom che la Germania sta vivendo negli ultimi due anni ha ridotto notevolmente il numero dei disoccupati, che anche nel mese di settembre è sceso di 162mila unità, arrivando alla cifra complessiva di 3,543 milioni di persone, l'8,4%, la più bassa degli ultimi 12 anni. Anche se il tasso di disoccupazione destagionalizzato è pari all'8,8%, si tratta comunque di un calo sensibile rispetto al 10,3% registrato solo l'anno scorso.

L'inversione di tendenza risulta ancora più importante se si considerano i dati degli ultimi 15 anni. Tra il 1990 e il 2004 gli investimenti delle imprese tedesche nei dieci paesi entrati nell'Ue nel 2004 sono passati da 348 milioni di euro a 41,4 miliardi di euro. Mentre il numero di occupati nelle affiliate locali delle imprese tedesche è salito da 31mila a 757mila persone. Contemporaneamente in Germania l'occupazione era scesa di 120mila unità.

Ma l'errore che molte aziende hanno commesso è stato quello di non considerare appieno le spese che il ritardo di sviluppo nelle infrastrutture, nella formazione delle maestranze e nella burocrazia dei paesi esteri avrebbero comportato. Il Centro per la razionalizzazione e l'innovazione dell'economia tedesca (Cri), citato dallo Spiegel , ha fatto bene i conti in tasca alle imprese che hanno scelto di delocalizzare e ha potuto così stimare che il guadagno medio del 14% lordo ottenuto sul costo del lavoro poteva essere ridotto da altri fattori e dalla razionalizzazione delle spese negli impianti tedeschi al 2,5% lordo. Troppo poco per imbarcarsi in una simile avventura.

Non sono solo però le industrie tedesche a riaprire le fabbriche in Germania. L'alto sviluppo tecnologico, la qualità della ricerca e delle infrastrutture attirano sempre più investitori stranieri. E' il caso della Rolls Royce, che ha spostato la produzione da Derby, in Inghilterra, a Dahlewitz, in Brandeburgo, dove procede da anni un progetto di collaborazione con l'università di Cottbus per lo sviluppo tecnologico. Ed è anche il caso della Red Hat, impresa statunitense per lo sviluppo di software, e della General Electric, che si sono trasferiti nella costosa, ma tecnologicamente avanzatissima Baviera, e della Hyundai, della Honda e della Panasonic, imprese asiatiche che hanno scelto di puntare su qualità e la ricerca.





Liberazione 25/11/2007


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